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C’è una linea che non dovrebbe mai essere superata in una democrazia. Una linea che separa il dissenso dal ricatto, la critica dall’intimidazione, la libertà dall’imposizione del silenzio.
Quella linea è stata infranta con il fragore dell’esplosione che ha distrutto due auto di Sigfrido Ranucci, davanti alla sua abitazione. Il bersaglio è Ranucci, certo.
Ma è anche il mestiere che incarna: il giornalismo d’inchiesta. Il giornalismo che fa domande scomode, che non si accontenta dei comunicati stampa, che apre i fascicoli chiusi e legge tra le righe dei poteri.
È un avvertimento che suona come una lezione vigliacca: chi cerca la verità, chi indaga, chi espone le complicità tra crimine e potere, può saltare in aria.
Non c’è solo Ranucci, ci sono decine di giornalisti minacciati ogni anno in Italia. Non può bastare la solidarietà. Serve una reazione vera, urgente, all’altezza del pericolo. Lo Stato ha il dovere, oggi più che mai, di mostrare che chi tocca un giornalista, tocca un pezzo della Repubblica Italiana.

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